(Torino 1592-1675) letterato italiano. Di famiglia nobile, gesuita, nel 1634 lasciò l’ordine in seguito a un’aspra polemica interna. Fu poi al servizio dei Savoia, dimorando per alcuni anni nelle Fiandre. Scrisse tre volumi di Panegirici (1659-60) sacri e profani, tragedie (Ermenegildo, Edippo, Ippolito, 1661), libri di storia e di morale (Filosofia morale, 1670). Ma l’opera sua più famosa è Il cannocchiale aristotelico (1654; ed. accresciuta 1670), considerato, insieme a quello di B. Gracián (Acutezze e arte dell’ingegno, 1642-48) il maggior trattato sul concettismo. In esso T. esplora con acume e dovizia di esempi l’intera gamma del parlar figurato, cercando la spiegazione della metafora nella Retorica di Aristotele e indugiando in particolar modo sulle «argutezze» e sui «concetti predicabili», intesi come artifici dello stile che consentono di realizzare i principi e gli orientamenti della poetica barocca: i fini del diletto e della «meraviglia», la prospettiva illusionistica, l’accumulo e lo sdoppiamento degli oggetti rappresentati.